
PREGHIERA GENITORI ADOLESCENTI 2025
Spunti di Riflessione
Trovi qui una “estensione” dei contenuti presenti sul libretto che ti è stato consegnato durante l’incontro di preghiera dedicato ai figli.
Genitori e figli in adolescenza, le strategie del cuore
Il rapporto genitori e figli adolescenti
L’adolescenza è l’età di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta. Così come la stessa parola ci suggerisce, adolescere in latino significa crescere. Spesso si dice, sbagliando, che l’adolescente è contemporaneamente un bambino e un adulto.
Come ci insegna la psicoanalista E. Kestemberg, “l’adolescente in realtà non è più un bambino, ma non è ancora un adulto”.
È proprio questo che costituisce l’essenza della fase adolescenziale: il ragazzo da una parte rinnega la sua infanzia e dall’altra ricerca uno status di adulto. Necessita di spazi di libertà per poter esplorare da solo il mondo intorno a sé e per rispondere alla domanda che imperversa nella sua mente: “chi sono io?”.
In questa fase della sua vita, l’adolescente è soggetto a pressioni interne (i suoi cambiamenti fisici ed emotivi) e a pressioni esterne (i coetanei, i genitori, la società stessa). È proprio il combinarsi delle pressioni interne ed esterne a caratterizzare la complessità di questa età di passaggio.
Alla ricerca della propria identità
L’adolescente è alla continua ricerca della propria identità. Per scoprire chi è e chi vuole diventare, deve imparare a confrontarsi fuori dalle mura domestiche e ha bisogno di modelli con cui identificarsi, da imitare o prendere come esempio. I genitori non sono più le persone cui desidera assomigliare: al centro dell’interesse ora ci sono gli amici. L’adolescente è perciò costantemente in lotta contro i genitori e non perde mai l’occasione di enfatizzare gli aspetti di differenza e di opposizione.
Se il bambino non fa altro che simulare il genitore, l’adolescente invece deve e vuole differenziare se stesso in modo netto, compiendo azioni contrarie alle aspettative dei propri genitori, e per farlo mette in atto nei loro confronti comportamenti di provocazione e di sfida.
Solo così potrà trovare la sua posizione nella società e costruire un’immagine di sé via via più strutturata.
Il passaggio dalla visione positiva e “perfetta” dei genitori tipica dei bambini, verso una visione di essi più realistica ed equilibrata, nella quale ai genitori vengono riconosciuti gli aspetti positivi ma anche i limiti e le imperfezioni, avviene proprio attraverso questa fase. Tutto viene rimesso in discussione attraverso momenti di opposizione e di contrasto. Sarà con l’età adulta che potrà riscoprire e accettare le somiglianze con i propri genitori.
Il ruolo della famiglia
Nonostante reclami la propria autonomia, il ragazzo è ancora profondamente dipendente dalla sua famiglia.
Le trasformazioni del corpo, la scoperta di nuovi desideri e di nuove emozioni sono esperienze molto faticose. Sono cambiamenti che comportano la continua ricerca di significati, che lo travolgono letteralmente e per i quali non sempre è equipaggiato psicologicamente.
Mettere costantemente alla prova i genitori con i suoi comportamenti risponde al suo bisogno di sentire che in casa il suo posto è al sicuro e che l’affetto nei suoi confronti è immutato, nonostante lui non sia più lo stesso di prima.
Per i genitori può essere difficile tollerare che il figlio ora non sia più il bambino gradevole ed educato di qualche anno fa, e che in certi momenti possa rivelarsi antipatico, ribelle e provocatorio.
Cosa può fare allora un genitore di fronte a questi cambiamenti improvvisi? Non lasciarlo solo, essere disponibile ad accettare le molte sembianze che potrà assumere sino a che il figlio non troverà il suo personale modo di stare nel mondo e ci si sentirà a proprio agio. Dovrà chiudere un occhio e accogliere un taglio di capelli un po’ strano, oppure un modo di vestire eccentrico, magari simile allo stile dei suoi idoli, proponendogli dei limiti che siano ragionevoli e posti in essere solo per il suo bene, ma non frutto del proprio gusto personale.
Il compito dei genitori è ora infatti quello di accogliere con fiducia il proprio figlio, che non è più un bambino ma non è ancora responsabile e maturo come un adulto, tenendo bene a mente che se hanno fatto del proprio meglio per lui, il bambino che hanno cresciuto sino a ora non sparito, ma si trova dentro la nuova persona che si sta sviluppando. Sentire che i genitori mantengono una visione buona di lui, rinforzerà la sua autostima e lo sosterrà nel fare le scelte più sane e giuste, anche se talvolta non saranno popolari e condivise dal gruppo dei coetanei.
Superare il timore del cambiamento
Con l’adolescenza dei propri figli, i genitori devono affrontare una serie di cambiamenti nel proprio modo di relazionarsi con il proprio figlio.
Scrive lo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet,
“Essere genitore di un adolescente diventa particolarmente difficile: bisogna accettare di mettersi da parte, restando nello stesso tempo presenti, a disposizione, tentando di rinnovarsi e di rinunciare ad avere, come prima, un compito soprattutto improntato all’accudimento e alla protezione”.
Questa fase di cambiamento coinvolge dunque tutta la famiglia, non solo l’adolescente.
Il proprio “bambino” ora è una persona diversa, capace di passare dall’allegria alla tristezza con grande rapidità, che un attimo prima è arrogante e un attimo dopo è amorevole e affabile. Può trascorrere ore nella propria camera in solitudine in preda alla rabbia oppure richiede di uscire sempre di casa per stare con gli amici.
È normale che i genitori si chiedano “saremo in grado?”, oppure “dove stiamo sbagliando?”, affermando di avere a che fare con una persona che non riconoscono perché così diversa nel modo di fare, talvolta di vestire, in generale così diversa dal bambino che conoscevano.
Spesso le richieste dell’adolescente sono confuse e contraddittorie, e il conflitto è all’ordine del giorno.
Se i genitori desiderano lasciare le cose come sono (com’erano), o non sono disposti a cambiare un po’ le proprie abitudini e i propri modi di fare, involontariamente ostacolano il percorso di crescita dell’adolescente.
I genitori devono superare il proprio timore del cambiamento ed essere disponibili ad accogliere le novità e anche l’incoerenza tipiche di questa fase.
Devono accettare che d’ora in poi il loro intervento sarà diverso: meno concreto ma ugualmente presente offrendo il loro sostegno quando il figlio ne abbia necessità.
Devono provare ad avvicinarsi ai nuovi interessi del figlio, anche se sono distanti anni luce dai propri, superando la ritrosia che spesso nasconde solo la paura di essere da loro rifiutati.
È possibile dare dei limiti all’adolescente?
Non solo è possibile, è anche necessario.
Nonostante i cambiamenti fisici, che per alcuni sono anche molto veloci, l’adolescente non è un adulto: lotta strenuamente contro i limiti imposti dai genitori, ma ha assolutamente bisogno che il genitore non rinunci a investire su di lui per una crescita positiva. Soprattutto durante la prima adolescenza, il ragazzo ha bisogno di confrontarsi e, perché no, litigare con i propri genitori. L’adolescente, infatti, impegnato nell’affermazione di sé come essere indipendente, spesso mettendo in atto dei comportamenti che hanno lo scopo di saggiare le reazioni degli adulti di riferimento. Attraverso il modo in cui il genitore reagisce, mette alla prova l’interessamento nei suoi confronti, sonda quanto si possa spingere in là, comprende se i limiti siano reali oppure ridefinibili.
Litigare con il proprio figlio adolescente di sicuro è un’esperienza molto frustrante: da una parte, è facile sentirsi un pessimo genitore che non riesce a comprendere i bisogni del figlio e dall’altra trovarsi a non tollerare la sua disapprovazione o sentire che invece è il figlio a non capirlo.
Sapere che è normale che i figli adolescenti ricerchino il conflitto, rifiutino a priori le regole e si oppongano è un passo importante per riuscire a risolvere le discussioni senza farle degenerare e affrontarle senza evitarle a priori.
Abbiamo visto come l’adolescente in questa fase sia alla ricerca della propria identità: per poter maturare un modo di essere forte e flessibile è necessario che capisca fino a dove si possa spingere. La casa è il contesto più sicuro in cui “fare le prove” per scoprire veramente ciò che pensa; gli scontri sono occasioni per sperimentare che i conflitti si possono risolvere. Se evitiamo di discutere con loro, cediamo alla nostra fatica o alla nostra insicurezza, l’adolescente non potrà sperimentare che i problemi sono risolvibili ed è probabile che crescerà con il timore di confrontarsi oppure, di contro, adotterà modalità eccessivamente autoritarie e non imparerà la mediazione.
Porre dei limiti e restare fermi
In certi momenti è necessario che i genitori pongano dei limiti con fermezza. Se l’adolescente intraprende condotte rischiose, si sta avviando su una strada negativa, o fa delle scelte sbagliate, l’adulto di riferimento deve stabilire dei limiti riaffermando il proprio ruolo di supporto alla crescita del figlio. I genitori devono continuare a essere genitori, evitando di assumere ruoli troppo amicali (alla pari) nel tentativo di conquistare l’approvazione del figlio adolescente, poiché la loro capacità di dire un no necessario con fermezza è una rete di protezione che fa sentire al sicuro l’adolescente confuso e impaurito.
L’importante è saper distinguere se la posizione presa è per l’interesse reale del figlio, o se invece è frutto delle proprie insicurezze o aspettative su di lui.
A volte distinguere la provocazione e la ribellione dall’insorgere di problematiche serie non è per nulla facile, ed è proprio in questi casi che richiedere l’aiuto di un esperto è fondamentale.
Tra limiti e castighi c’è una bella differenza
Privare l’adolescente degli oggetti e delle esperienze cui tiene non è il modo migliore per aiutarlo a crescere. Farlo può compromettere una buona comunicazione e innescare meccanismi in cui i ragazzi nascondono i problemi per la paura di essere ripresi e sanzionati.
Sottrarre la consolle dei videogiochi, il telefono cellulare, negare per un po’ le attività sportive e le uscite con gli amici spesso diventano una moneta di scambio o una punizione per i comportamenti scorretti dei figli. Ciò di certo non li aiuta a riflettere e a tentare di recuperare, ma acuisce soltanto la loro frustrazione. Ciò, anziché scoraggiare i comportamenti negativi, può portarli invece a raffinare le proprie tecniche per “non farsi scoprire”. Possono sentire i propri genitori come dei giudici inflessibili da cui mantenere le distanze, perché “tanto non capiscono nulla”, oppure “tanto il potere è in mano loro”, oppure “mi puniranno comunque, chissenefrega!”.
Lo strumento con cui invece i genitori possono far riflettere i propri figli ed evitare che il comportamento si ripeta è di natura affettiva. Il genitore che non nasconde la propria delusione e mostra chiaramente al figlio il proprio rammarico e la propria perdita di fiducia lo costringe a fare i conti con il rischio di perdere la stima del genitore stesso e l’avergli causato tristezza o preoccupazione.
Non sono il ricatto o la punizione ad aiutarli a crescere in modo armonico, ma il sapere che il loro bisogno di avere un posto in famiglia e di essere amati non è messo in discussione. Ovviamente i ragazzi contestano e continueranno a farlo, probabilmente non daranno mai apertamente ragione ai genitori, ma ciò non toglie che ascoltino e possano comprendere per poter scegliere il modo migliore di fare per il futuro. Tutto questo fa parte dell’avventura della crescita..
Per poter aiutare i propri figli a vivere in modo armonioso il periodo adolescenziale, bisogna ricordare che l’adolescenza non è solo un periodo di crisi, ma anche e soprattutto un periodo di grandi opportunità.
L’adulto deve dunque incoraggiare il figlio a scoprire e valorizzare la creatività che fa parte del percorso adolescenziale: con un corpo nuovo tutto da scoprire, l’adolescente deve spingersi sempre più in là verso la conquista di nuovi spazi di autonomia e nuovi ruoli che lo condurranno alla fase successiva, l’adultità.
Barbara Sola, psicologa psicoterapeuta psicoanalitica dell’età evolutiva.
Tratto dall’articolo di Franco Nembrini I giovani d’oggi sono come i giovani di sempre
Cominciamo da qui. Provocatoriamente: i giovani d’oggi sono come i giovani di sempre. Perché il loro cuore, come sempre, lo fa Dio. Perché il loro cuore è desiderio di bene, di bello, di vero, esattamente come il cuore di tutti i giovani che sono venuti al mondo dall’inizio dei tempi. Perché allora sembrano così diversi? Perché sembra così difficile che questo cuore emerga? C’è come una barriera che gli impedisce di comunicare col mondo. Come si risolve questo problema? Con un segnale più potente: il problema non è il cuore dei giovani; è che gli adulti devono mandare un segnale più potente per perforare quello schermo.
Ma prima di parlare degli adulti, domandiamoci: quali sono le ragioni che hanno portato alla formazione di questa barriera? Nella mia esperienza, io ne ho incontrate sostanzialmente due.
La prima l’ho capita in un dialogo con ragazzo, geniale ma fragilissimo, che ho frequentato a lungo una ventina di anni fa. Io stavo raccontando di che cosa erano stati per la mia generazione il Sessantotto e gli anni successivi, che avevano spazzato via quasi tutto quel che restava della tradizione cristiana, quando a un certo punto il ragazzo salta su e dice: “Franco, a voi hanno portato via la fede; a noi hanno portato via la realtà”. In un’altra occasione ho chiesto a un ragazzo, che passava tutto il suo tempo a giocare a un gioco del calcio alla Playstation perché non giocasse invece a calcio vero, e lui mi ha risposto che a calcio vero ci si sporca, fa freddo, ci si fa male; alla Playstation no. Sì, in questi decenni ai ragazzi è stata portata via la realtà. È stata portata via la fatica che l’impegno con la realtà comporta. Non è facile indicare le ragioni di questa perdita della realtà in poche righe. Certo, negli ultimi decenni i nuovi media hanno contribuito moltissimo: oggi i ragazzi possono fare praticamente tutto davanti allo schermo del loro smartphone. Ma sarebbe sbagliato dare la colpa ai media. A mio parere c’è prima una debolezza degli adulti, c’è un atteggiamento degli adulti che credono di poter risparmiare ai giovani l’incontro drammatico con la realtà, che fanno di tutto per risparmiare loro la fatica. Una preoccupazione anche buona, se vogliamo, nella sua origine, risparmiare ai figli la fatica che hanno fatto loro; ma terribilmente sbagliata, perché senza la fatica di un rapporto vero, concreto, con il reale e con tutte le sue fatiche e i suoi rischi, non si cresce.
La seconda ragione, in parte connessa anche alla prima, è la paura: i ragazzi oggi si rifugiano nel loro mondo virtuale perché la realtà vera fa paura. Perché sentono il mondo come cattivo, come un pericolo, una minaccia. E questa è veramente una rivoluzione epocale. Perché per una coscienza umana sana il mondo si presenta come un’attrattiva. Il mondo di per sé è bello e buono, attira, chiede di essere scoperto, incontrato, utilizzato. Invece l’atteggiamento predominante nei ragazzi di oggi è la paura. E qui si apre una domanda colossale: da dove nasce questo ribaltamento? E la risposta è drammatica: la paura dei ragazzi è figlia della nostra.
Sempre lo stesso ragazzo di prima, in un’altra occasione, ha fatto un’altra riflessione per me illuminante: “Franco, sai che cos’è un maglione?”, mi chiede a bruciapelo. Prima che io possa reagire dà lui stesso la risposta: “È quell’indumento che i figli devono indossare quando le mamme hanno freddo”. E già questa è una risposta non da poco… Ma poi prosegue: “Franco, sai che cos’è Gioventù Studentesca (lui nominò quella, ma ci si può mettere qualsiasi cosa, l’oratorio, i boy-scout, l’associazione sportiva…)? È quell’associazione che i figli devono frequentare quando le mamme hanno paura”. Da allora, ho visto questa osservazione geniale confermata in infiniti casi: i genitori hanno paura del mondo e vogliono tenere i figli lontani dai pericoli. Pensano che il mondo sia cattivo, e credono che il sistema migliore per tenere lontani i figli dai pericoli del mondo sia alimentare in loro la paura del mondo. La paura che si facciano del male, fin da piccoli: non toccare, non andare lì che cadi, stai attento che se cadi muori… Non parliamo poi di quando diventano adolescenti e cominciano ad andare per il mondo. Qui inizia davvero il Grande Terrore: paura che si droghino, che facciano cattivi incontri, che questo e che quell’altro. E quindi giù a dipingere loro scenari terrificanti, a cercare di vietare tutto il vietabile. Ma forse, e più profondamente ancora, i genitori hanno paura dei figli: hanno paura della libertà dei figli, hanno paura che i figli non crescano secondo il progetto – buono, per carità, buonissimo – che essi hanno in mente per loro. Come dice il titolo geniale del libro appena uscito di uno psicologo che al lavoro con gli adolescenti ha dedicato tutta la vita, Matteo Lancini: Sii te stesso a modo mio. E perciò li affoghiamo nei rimproveri e nelle recriminazioni: “Non sei questo, non fai mai quest’altro, sei sempre il solito…”, seguito da una sfilza di aggettivi negativi – disordinato distratto pigro ingrato e chi più ne ha più ne metta.
Solo che, come scrive il mio amato Collodi, “la fame è più forte della paura”, che è un’annotazione di Pinocchio, quando il burattino si ritrova in casa da solo, dopo che Geppetto è stato arrestato, e fuori “era una nottataccia d’inferno: tuoni, lampi, vento…”. Sarebbe da stare barricati in casa. Senonché Pinocchio ha fame. E perciò lascia la sicurezza della casa e si lancia nel mondo, per ostile che sia. In questa scena ho sempre visto un’immagine potente della questione che stiamo trattando: possiamo dipingere ai nostri ragazzi il mondo come un luogo terribile, pieno di pericoli tremendi; ma la fame, la fame di vita, la fame di un significato per la vita, la fame di qualcosa che dia significato a tutte le cose pur buone che viviamo, “è più forte della paura”, dei rischi che si possono correre. E se non trova una strada adeguata, quella fame finisce per sfogarsi in surrogati: in comportamenti ribelli ed eccessivi, in quei gesti di violenza gratuita e assurda che troppo spesso riempiono le cronache, fino al suicidio, che – dato terrificante – oggi è la seconda causa di morte fra gli adolescenti.
Se tutto questo è vero, allora il problema dell’educazione non sono i giovani: sono gli adulti. Il problema è che i ragazzi si trovino davanti adulti incapaci di mostrar loro che la realtà invece è buona. È buona la realtà, ed è buono il desiderio che Dio ci mette in cuore di incontrarla, di scoprirla; e allora il nostro compito è accompagnare i ragazzi in questa scoperta, mostrar loro il volto buono della realtà, aiutarli a incontrare esperienze, fatti in cui si tocca con mano che la realtà è buona. In una parola, il compito degli adulti è tornare a testimoniare la positività e la bellezza della realtà.
Attenzione: la positività e la bellezza della realtà per sé. Altrimenti succede come a una mamma che ho incontrato tempo fa, che si lamentava che la figlia aveva preso strade sbagliate, e diceva più o meno “e con tutto il tempo che ho perso a portarla a vedere cose buone, la natura, i musei…” “Come, signora, perché dice ‘il tempo che ho perso?’” “Perché se non fosse stato per lei io tutte quelle cose mica le avrei fatte”. I ragazzi hanno un fiuto straordinario: se si accorgono che facciamo qualche cosa “per loro”, sentono subito puzza di bruciato, scantonano subito. I ragazzi hanno bisogno di vedere che facciamo qualcosa di bello e di buono per noi, che rende contenti noi; solo così può scattare quell’invidia sana che può suscitare in loro il desiderio di capire qual è il nostro segreto, perché noi siamo contenti della vita, e perciò perché può essere interessante anche per loro seguirci. Altrimenti inevitabilmente finiscono per domandare, esplicitamente (l’ho sentito con le mie orecchie) o implicitamente: “Mamma, papà, professore, perché dovrei fare come dici tu? Per diventare scontento della vita come te?” Il nostro compito è prendere su di noi il male e restituire il bene, portare il peso della fatica e del dolore restituendo letizia e speranza, vivere certi che la vita è buona, così che chiunque passi dalle nostre parti possa respirare, come fa uno che cammina nel bosco.
Sì, Nembrini – mi sono sentito dire decine di volte – lei dice bene, il nostro compito è testimoniare la positività e la bellezza della realtà: ma con questi ragazzi come si fa? Con questi ragazzi così maleducati, così incapaci di fatica, così persi nei loro smartphone, così questo, così quell’altro… Signori, rispondo sempre, guardate che tutte le cose che rimproveriamo ai nostri ragazzi non sono altro che il raglio dell’asino di Pinocchio. Mi spiego. Siamo verso la fine del racconto di Collodi, Pinocchio è diventato un asino, è costretto a esibirsi in un circo, tutto ricoperto di nastri e lustrini. E qui, in mezzo alla folla che si fa beffe di lui, quando fa il gesto fondamentale dell’umano, alza la testa, Pinocchio vede la Fata. Perché nemmeno qui, al fondo dell’abiezione, la Fata lo abbandona. E qui, alla vista della Fata, tutto preso dall’entusiasmo per la presenza di lei, lancia il suo grido: “Oh Fatina mia! oh Fatina mia! Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori. Invenzione straordinaria, perché fotografa con un’immagine strepitosa la situazione di tutti i nostri ragazzi. Che cosa sono infatti i nostri ragazzi, se non tanti Pinocchio in cerca della loro umanità, in mezzo a un mondo che fa di tutto per ridurli a bestie ricoperte di lustrini? E quando vedono un lampo di luce turchina, uno spiraglio di cielo, qualcosa di bello, che cosa fanno, come Pinocchio, i nostri ragazzi? Gridano, implorano. Senonché non sono capaci. Non sono capaci di articolare un suono davvero umano. Dal loro desiderio male educato esce un rumore inarticolato, un grido straziato. Che cosa sono infatti tutti i loro gesti scomposti, i loro atti eccessivi, le loro sfide sgraziate, se non questo raglio dell’asino? Il raglio dell’asino, il grido di chi chiede uno spiraglio di cielo ma non è capace di dire il suo bisogno vero; e allora lo scaglia verso il cielo come può, come sa, con le forme e i modi un po’ animaleschi che sono i soli che è in grado di adoperare.
E allora, davanti al raglio dell’asino dei nostri ragazzi, la risposta qual è? È l’altro nome dell’educazione: è la misericordia. La misericordia è il gesto di chi abbraccia l’altro così com’è, di chi vuol bene all’altro così com’è, di chi è disposto a dare la vita per l’altro così com’è, senza chiedergli prima di cambiare – come facciamo tutti: “ti vorrei più bene se tu…” –, come Cristo, che “mentre eravamo ancora peccatori, morì per gli empi” (Rm 5, 8). Per la mia esperienza, di questo hanno bisogno i giovani, oggi: di una casa dove poter dire, come ho sentito da uno di loro, “che bella una casa dove si sta così bene che si può anche star male”, di un adulto che, certo e lieto della vita propria, sia disposto ad abbracciarlo così com’è.
Franco Nembrini